ALTO TRADIMENTO
Da mezzo secolo i governi arabi hanno abbandonato la Palestina. È il grande tradimento che nessuno osa nominare. Sulle complicità dell’Occidente si è scritto, denunciato, ripetuto fino alla nausea. Ma ciò che viene sempre rimosso, quasi censurato, è la resa araba. La scelta calcolata di monarchie e repubbliche di sacrificare la Palestina sull’altare della propria sopravvivenza.
Giordania. Dopo il 1967, con la sconfitta araba e la perdita della Cisgiordania, la Giordania diventa rifugio per i palestinesi. L’Olp e i gruppi fedayn si muovono quasi come uno Stato dentro lo Stato. C’è poi il fattore demografico: la maggioranza della popolazione giordana è composta da palestinesi.
Per Hussein il regno hashemita rischia letteralmente di essere sostituito da una “Palestina di fatto”. È intollerabile: o loro o la monarchia. La scelta diventa guerra. Nel 1970, Settembre nero è questo: carri armati giordani che bombardano i campi, migliaia di morti, l’Olp costretta a fuggire in Libano. Da fratelli a nemici interni.
Ventiquattro anni dopo, nel 1994, la svolta definitiva: trattato di pace con Israele. Non più intese sotterranee, ma patto scritto, frontiere coordinate, intelligence condivisa. La monarchia incassa miliardi e protezione dagli Stati Uniti, in cambio del ruolo più infame: guardiano delle frontiere israeliane e muro contro i palestinesi stessi.
Egitto. Il “cuore del mondo arabo” ha fatto la sua svolta nel 1979: Camp David, Sadat a Washington, la mano nella mano con Begin. Da allora le armi americane sono il salario della sottomissione. Il Sinai smilitarizzato, Gaza chiusa a chiave da Rafah. Ogni razione di munizioni concessa dall’Occidente in cambio del silenzio sui bombardamenti a due passi da casa.
Arabia Saudita. Potenza del petrolio e della Mecca, ha soldi senza limiti ma eserciti senza nervi. Ha mandato jet e missili sullo Yemen non per liberare, ma per macellare. Contro Israele invece nessun colpo: solo accordi sotterranei, normalizzazione preparata a colpi di banche e appalti.
Siria. Assad padre, nel 1970, manda i carri armati in Giordania per salvare i palestinesi dal massacro di Settembre nero. Ma li ritira subito, lasciando l’Olp sola sotto il fuoco di Hussein. Negli anni Ottanta, la Siria non esita a scatenare milizie filo-damaschine contro i campi palestinesi in Libano, assediandoli e affamandoli. Fino al 2011 Hamas aveva la sua sede politica a Damasco. Con l’inizio della guerra civile, Hamas ha rotto con Assad e si è spostata verso il Qatar. Oggi, con il cambio di regime, Hts e Hamas si guardano con diffidenza reciproca.
E poi la lunga lista della normalizzazione. Dopo Oslo, dopo Camp David, dopo la pace giordana, arrivano gli Accordi di Abramo del 2020: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan. Non più nemici ma partner ufficiali di Israele, in cambio di affari, riconoscimenti territoriali, cancellazioni dalle liste nere americane. È la resa trasformata in trattato: cooperazione militare, scambi economici, turismo, tecnologia. La causa palestinese, ridotta a merce di scambio.
Certo, le piazze arabe gridano “Palestina libera”, ma i palazzi stringono mani, firmano trattati, aprono basi agli americani. Così l’unico Stato che ha fatto della causa palestinese un vessillo permanente è l’Iran sciita, estraneo per religione ma spietatamente coerente nella sua strategia: finanziare, armare, proiettare potere attraverso la resistenza. Non per amore, ma per calcolo. Eppure il calcolo iraniano brucia più del silenzio arabo.
In conclusione, il bilancio è netto: i regimi arabi hanno scelto la pace fredda, il commercio, l’abbraccio con Washington e Tel Aviv. Hanno lasciato i palestinesi soli. La verità è spietata: il popolo palestinese è solo perché chi avrebbe potuto difenderlo ha preferito difendere il proprio trono.
Alfredo Facchini